Sappiamo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei
poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della
speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della
inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva
nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort. ap.
Evangelii gaudium, 202).
Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro
dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi
potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro
capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con
umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento». (Discorso al II
incontro mondiale dei Movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9
luglio 2015)
Francesco 6 novembre 2016 ai Movimenti popolari
Apocalisse e guerra giusta nel XXI secolo proposta di un dialogo aperto sulle tracce di Thomas Merton a cura del gruppo di riflessione "Economia disarmata" promosso dal Movimento dei Focolari in Italia
venerdì 11 novembre 2016
lunedì 7 novembre 2016
Realismo politico e paradosso secondo Niebuhr
Negli otto anni al comando della grande
superpotenza, si legge un forte legame tra Obama, il primo presidente afroamericano, e il
pensiero di Reinhold Niebuhr. Qualche domanda a Gianni Dessì, professore di
filosofia politica a Roma Tor Vergata e segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo,
tra i maggiori studiosi del teologo considerato il padre del realismo politico
statunitense
«Già in una intervista del 2007 il presidente Obama
aveva ricordato Reinhold Niebuhr come uno dei suoi autori di riferimento.
L’idea centrale che Obama riprende dal teologo protestante morto nel 1971, recentemente
riproposta nel suo discorso tenuto in occasione
del conferimento del Nobel per la pace è
che il male , la fatica e il dolore non possano essere eliminati
interamente dal mondo . Questa convinzione si radicava per Niebuhr nella consapevolezza,
maturata negli anni delle due guerre mondiali che hanno segnato il Novecento,
che le migliori intenzioni dell’uomo moderno di sconfiggere totalmente il male avevano condotto a forme di
idealismo politico incapaci di considerare la realtà storica nella sua complessità. In altre parole la
pretesa di moralizzare interamente il mondo poteva condurre ad una cecità nei
confronti delle concrete dinamiche di potere che ne aumentavano la forza
distruttiva».
«Nel realismo nei
confronti della politica. Piuttosto che una politica intesa come realizzazione integrale di principi ideali,
Obama ha espresso una politica che, seppure animata da forti ideali, può essere
meglio compresa come tentativo di rimedio, di limitazione del male. Egli ha
evitato un certo prometeismo, che si esprime nella convinzione che il mondo
possa essere totalmente rifatto dalla volontà e dall'impegno dell’uomo. D’altra
parte non ha rifiutato strade pericolose e a volte aspre per realizzare i propri intenti, soprattutto
al livello dei rapporti internazionali. Sebbene possa sembrare paradossale si
potrebbe parlare, in questo senso di umiltà: certamente non si tratta di una
scarsa considerazione del suo ruolo e dell’importanza globale di alcune sue scelte. Si tratta piuttosto sia della consapevolezza che il male non sarà mai
interamente eliminato dal mondo perché non sarà mai eliminato del cuore
dell’uomo, sia della accettazione che la
responsabilità, per coloro che sono chiamati a decidere, può comportare la
scelta di azioni che individualmente non sarebbero tollerabili. Certamente tra
queste due dimensioni, quella relativa alla necessità di raggiungere obiettivi
concreti e quella delle convinzioni morali personali, non ci può essere una
radicale separazione. Proprio la consapevolezza del legame tra di esse e la
percezione che agire politicamente può significare, in precise circostanze,
favorire la prima dimensione, impedisce al politico di pensare a se stesso e
alla propria attività come se essa fosse semplicisticamente una trasposizione
in politica della lotta tra bene e male. Impedisce quindi al politico di
pensare a se stesso come a un simbolo
inattaccabile del bene in lotta contro il male nel mondo».
Un bel passo avanti davanti a certe rudimentali teologie politiche sull'Impero del bene del male…
Bisogna tener conto che in Niebuhr la consapevolezza della complessità e della drammaticità dell’azione politica scaturiva dalla sua concezione di libertà: egli riteneva che la libertà umana, come tendenza di autorealizzazione, di trascendimento e di aspirazione al significato , fosse all'origine delle più grandi conquiste umane; pensava che questa stessa libertà potesse errare e identificare in beni parziali il proprio compimento. La posizione nei confronti della politica aveva quindi origine nella complessità della natura umana, insieme immagine di Dio e peccato.
«Oggi le posizioni
niebuhriane non appaiono certo dominanti nella scena politica americana, che
appare al contrario caratterizzata da una polarizzazione tra posizioni che il
teologo avrebbe probabilmente definito con i termini fondamentalismo e
progressismo. Nell'era della semplificazione mediatica, dell’imporsi della
cultura del narcisismo e dello strapotere della finanza internazionale, il
riferimento di Obama a Niebuhr, certamente limitato dalla necessità di tenere
conto di precisi condizionamenti storici, appare comunque un atto di
coraggio.
D’altra parte uno degli insegnamenti di
Niebuhr meno richiamati, è l’idea che la storia, proprio perché creata dalla
libertà degli uomini, esprima non solo gli errori della libertà, ma anche le
tracce della grandezza umana, segni che
spetta a coloro che svolgono un ruolo politico ascoltare e seguire».
Originale pubblicato su rivista Città Nuova
Originale pubblicato su rivista Città Nuova
domenica 6 novembre 2016
Non violenza e uso della forza
Confronto con Renato Sacco Pax Christi
La scelta cosiddetta “pacifista” o “non violenta” è incompresa perché facilmente banalizzabile. Ad esempio le critiche sulla politica degli armamenti presuppongono la prospettiva di un necessario disarmo anche unilaterale? Oppure possono accettare una politica di difesa in linea con la costituzione non determinata dagli interessi delle lobby industriali?
La scelta cosiddetta “pacifista” o “non violenta” è incompresa perché facilmente banalizzabile. Ad esempio le critiche sulla politica degli armamenti presuppongono la prospettiva di un necessario disarmo anche unilaterale? Oppure possono accettare una politica di difesa in linea con la costituzione non determinata dagli interessi delle lobby industriali?
Siamo in un tempo in cui si tende molto a
semplificare, e poco ad approfondire. Si usano espressioni “pacifismo di
vecchio stampo” come ha fatto
recentemente l’ex presidente Napolitano. I tempi dell’Isis vengono usati per
giustificare l’uso delle armi; oggi conta il realismo, si dice, ma la realtà è
molto più complessa. Esiste un rischio di sminuire tutto non affrontando la
realtà nella sua interezza perché l’esistenza del Daesh viene agitata per
giustificare la guerra da parte di certi governi che poi permettono – e
promuovono - la vendita delle armi ai gruppi terroristici. E’ un dato ufficiale
che l’Italia venda armi all’Arabia Saudita. Così come è ufficiale che l’Arabia
Saudita sostenga l’Is. Parlare di disarmo non è un vuoto idealismo ma l’unico realismo possibile davanti a
coloro che coprono interessi nascosti. La storia recente ce lo spiega con
abbondanza di particolari prendendo ad esempio l’inchiesta sulla strage dell’11
settembre a New York che non ha sfiorato la evidente presenza dei sauditi e il loro
coinvolgimento, lasciandoli così indenni da ogni ritorsione. Per tornare al
realismo, invito a ricordare l’urgenza invocata da papa Benedetto XVI,
commentando la prima lettura (Isaia 9,1-6) nella messa della notte di Natale
del 2010:“Signore, realizza totalmente la tua promessa. Spezza i bastoni degli
aguzzini. Brucia i calzari rimbombanti. Fa che finisca il tempo dei mantelli
intrisi di sangue. Realizza la promessa: La pace non avrà fine».
Thomas Merton e la “guerra giusta” di Mario Zaninelli
Thomas
Merton, il 21 novembre 1965, scrivendo al giornalista James Morrisey del
Louisville Courier Journal, così si esprimeva: “Se il pacifista è colui che crede che tutte le guerre siano sempre
sbagliate e sono sempre state sbagliate, allora io non sono un pacifista. Ciò
nonostante credo che la guerra sia una tragedia evitabile, e credo che il
problema del risolvere i conflitti internazionali senza una violenza massiccia
stia per diventare il problema numero uno dei nostri tempi”.
Il
29 novembre 1961, quattro anni prima, scrivendo al suo amico Jim Forest, noto
esponente del pacifismo, diceva: “Tecnicamente,
non sono, in teoria, un pacifista puro, anche se oggi, in pratica, non vedo
come si possa essere qualcosa di diverso nei confronti di alcune guerre anche
se sono limitate (in qualche modo ‘giuste’) e che presentano un qualche
pericolo per poter diventare una guerra nucleare in ampia scala”.
Questi
passi, ci mostrano, l’approccio di Merton al tradizionale insegnamento etico
cattolico verso la guerra, la cosiddetta teoria della guerra giusta, di cui
Merton la accetta fondamentalmente come legittima ma crede che debba condurre
logicamente ad un rigetto praticamente di tutte le guerre nell’era moderna. Sappiamo
anche che nella sua autobiografia, Merton, basò la propria decisione di cercare
lo status di obiettore cosciente e non combattivo per la Seconda Guerra
Mondiale sull’applicazione del principio della guerra giusta.
In sostanza, è favorevole, ad accettare che la guerra si attenga al criterio della giusta causa (ad es: è difesa e non aggressione), e se dichiarata questa venga fatta dall’autorità competente; è in qualche modo meno se questa guerra sia come un risultato all’ultima spiaggia ma è disposto a dare al governo anche il beneficio del dubbio. Così, egli accetta la legittimità della guerra secondo cui viene chiamata tradizionalmente il diritto alla guerra, cioè di entrare in guerra. Ma dove, Merton ha problema, un serio problema è con ciò che viene definito jus in bello, invece di jus ad bellum, cioè limitare mezzi e metodi durante la guerra [è quello che è il Diritto Internazionale Umanitario. Il DIU si applica indipendentemente dalla legittimità della guerra! mio inciso].
In sostanza, è favorevole, ad accettare che la guerra si attenga al criterio della giusta causa (ad es: è difesa e non aggressione), e se dichiarata questa venga fatta dall’autorità competente; è in qualche modo meno se questa guerra sia come un risultato all’ultima spiaggia ma è disposto a dare al governo anche il beneficio del dubbio. Così, egli accetta la legittimità della guerra secondo cui viene chiamata tradizionalmente il diritto alla guerra, cioè di entrare in guerra. Ma dove, Merton ha problema, un serio problema è con ciò che viene definito jus in bello, invece di jus ad bellum, cioè limitare mezzi e metodi durante la guerra [è quello che è il Diritto Internazionale Umanitario. Il DIU si applica indipendentemente dalla legittimità della guerra! mio inciso].
Domande per un confronto aperto
Nell’attuale drammatico tornante della storia, usando
un’espressione tipica di Giorgio La Pira, proponiamo perciò di offrire uno
spazio di dialogo ragionato a partire da alcune domande.
Il nostro paradigma culturale ed esistenziale non è segnato profondamente dalla necessità della guerra?
La nostra resistenza al male non
giustifica l’uso delle armi e quindi la guerra come avviene oggi, ad esempio,
con i curdi verso il Daesh e ieri la resistenza al nazifascismo e ogni
oppressione? Non esercita un certo fascino il suono del concerto di musica
classica nella città di Palmira riconquistata dai russi anche se, come dicono
alcune fonti, l’aviazione di Putin ha usato le bombe a grappolo?
Il riferimento a Lincoln, nel discorso di Francesco al Congresso Usa, non riguarda forse l’esistenza di motivazioni umanitarie (la liberazione dalla schiavitù) tali da condurre ad una violentissima guerra civile?
Non possiamo in qualche modo motivare l’uso della forza
senza arrivare a giustificare l’orrore in una spirale senza fine?
Seguendo Francesco
Papa Francesco invita continuamente a riconoscere le cause reali della guerra che sono legate al potere dei soldi. Invita a non cedere alla tentazione di giustificare l’uso della violenza armata con motivazioni religiose ma denuncia tale pretesa come blasfema pur invitando a riconoscere lo stato di guerra planetario alimentato dalla diseguaglianza e dall’economia che uccide la Terra. Come ogni grande catastrofe avvenuta nella storia, la scintilla destinata ad accendere l’olocausto, scocca in contesti apparentemente banali.
Ma prima ancora di affrontare la complessità pervasiva del
complesso militare industriale e finanziario, bisogna approfondire in maniera
esigente l’attualità della lezione di Thomas Merton che si pone esplicitamente
in alternativa al cosiddetto realismo cristiano di ascendenza agostiniana
promosso da Reinold Niebuhr.
Lontano da ogni rozza teorizzazione mitologica dell’impero del male, il celebre teologo protestante riconosceva la necessità talvolta di dover condurre la guerra senza negarne tuttavia l’orrore e gli effetti paradossali (“agisco per realizzare il diritto e provoco ingiustizie”).
Una visione che ha ispirato, per sua stessa ammissione, Barack Obama, come conferma il discorso pronunciato dal presidente Usa al momento di ricevere, per restare nel paradosso, il premio Nobel per la pace nel 2009.
Lontano da ogni rozza teorizzazione mitologica dell’impero del male, il celebre teologo protestante riconosceva la necessità talvolta di dover condurre la guerra senza negarne tuttavia l’orrore e gli effetti paradossali (“agisco per realizzare il diritto e provoco ingiustizie”).
Una visione che ha ispirato, per sua stessa ammissione, Barack Obama, come conferma il discorso pronunciato dal presidente Usa al momento di ricevere, per restare nel paradosso, il premio Nobel per la pace nel 2009.
Perchè partire da Thomas Merton
Nel discorso al Congresso statunitense del settembre 2015,
papa Francesco ha indicato, assieme ad Abram Lincoln e Martin Luther King,
altre due figure esemplari di quel Paese: Thomas Merton e Dorothy Day. Un uomo
e una donna decisamente controcorrente, radicalmente oppositori della
giustificazione della guerra che, invece, ha attraversato la storia millenaria
del cristianesimo. La predicazione dell’obbedienza all’autorità legittima, pur
se ingiusta, è, infatti, tuttora uno scandalo rimosso nella coscienza storica
collettiva.
Un testo di Merton, “La pace nell’era postcristiana”, è
stato censurato per decenni e pubblicato solo nel 2004. Con tale scritto, il
grande scrittore, convertitosi da adulto
al cattolicesimo e diventato monaco trappista nel convento del Getsemani
in Kentucky, definiva la guerra come opzione irrazionale e ateistica fatta
propria dagli stessi cristiani che affidano la propria salvezza all’idolo della
bomba e degli strumenti di morte che non possono rientrare nelle
giustificazioni classiche di una guerra giusta perché preordinati a creare
danni estesi sulla popolazione civile innocente, fino allo sterminio. In questo senso la decisione di costruire e
far esplodere gli ordigni nucleari sulle città del Giappone nel 1945
rappresenta il punto di non ritorno di un’era apocalittica dove la fine
imminente è ormai realisticamente possibile. I conflitti consumati dopo
Hiroshima e Nagasaki, anche se non sono giunti all’uso dell’arma finale, hanno
mostrato una capacità di distruzione sperimentata già con il bombardamento al
napalm di Tokio o quello al fosforo di Dresda, applicando la strategia (“Il
dominio dell’aria”) teorizzata dall’ufficiale italiano Giulio Douhet, nel 1921,
in contemporanea con Billy Mitchell e sir Hugh Trenchard.
Oggi, dopo l’illusione seguita al crollo del blocco sovietico, l’uso dell’arma atomica è ancor più fuori controllo perché accessibile a diversi Paesi, tutti possibili attori del “primo colpo”, anche se la vulnerabilità reale si sperimenta pure in Occidente con la tecnica asimmetrica del terrorismo, a partire dal disastro delle torri di New York nel 2001 fino ai più recenti crudeli attentati nonostante la presenza dell’esercito nel centro delle nostre città. In tale contesto colpisce la progressiva assuefazione alla guerra da parte delle giovani generazioni come un male inevitabile, l’accettazione del progressivo riarmo che distoglie risorse dalla cura dei beni comuni, come la scuola l’ambiente e la sanità, a favore di un complesso industriale che, per tenersi in piedi, deve vendere i prodotti anche alle nazioni in guerra finendo per attizzare il fuoco che teoricamente la politica del riarmo dovrebbe spegnere.
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