venerdì 11 novembre 2016

Diseguaglianza radice della guerra

Sappiamo che «finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 202).


Per questo, l’ho detto e lo ripeto, «il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. E’ soprattutto nelle mani dei popoli; nella loro capacità di organizzarsi ed anche nelle loro mani che irrigano, con umiltà e convinzione, questo processo di cambiamento». (Discorso al II incontro mondiale dei Movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015)

Francesco 6 novembre 2016 ai Movimenti popolari

lunedì 7 novembre 2016

Realismo politico e paradosso secondo Niebuhr


Negli otto anni al comando della grande superpotenza, si legge un forte legame tra Obama, il primo presidente afroamericano, e il pensiero di Reinhold Niebuhr. Qualche domanda a Gianni Dessì, professore di filosofia politica a Roma Tor Vergata e segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo, tra i maggiori studiosi del teologo considerato il padre del realismo politico statunitense

Quali sono le tracce del pensiero di Niebuhr in Obama?   



«Già in una intervista del 2007 il presidente Obama aveva ricordato Reinhold Niebuhr come uno dei suoi autori di riferimento. L’idea centrale che Obama riprende dal teologo protestante morto nel 1971, recentemente   riproposta nel suo discorso tenuto in occasione del conferimento del Nobel per la pace è  che il male , la fatica e il dolore non possano essere eliminati interamente dal mondo . Questa convinzione si radicava per Niebuhr nella consapevolezza, maturata negli anni delle due guerre mondiali che hanno segnato il Novecento, che  le migliori intenzioni  dell’uomo moderno di sconfiggere  totalmente il male avevano condotto a forme di idealismo politico incapaci di considerare la  realtà storica  nella sua complessità. In altre parole la pretesa di moralizzare interamente il mondo poteva condurre ad una cecità nei confronti delle concrete dinamiche di potere che ne aumentavano la forza distruttiva».


Come si legge questa visione nell'azione politica del presidente Usa?



«Nel realismo nei confronti della politica. Piuttosto che una politica intesa come  realizzazione integrale di principi ideali, Obama ha espresso una politica che, seppure animata da forti ideali, può essere meglio compresa come tentativo di rimedio, di limitazione del male. Egli ha evitato un certo prometeismo, che si esprime nella convinzione che il mondo possa essere totalmente rifatto dalla volontà e dall'impegno dell’uomo. D’altra parte non ha rifiutato strade pericolose e a volte aspre   per realizzare i propri intenti, soprattutto al livello dei rapporti internazionali. Sebbene possa sembrare paradossale si potrebbe parlare, in questo senso di umiltà: certamente non si tratta di una scarsa considerazione del suo ruolo e dell’importanza globale  di alcune sue scelte.  Si tratta piuttosto sia della  consapevolezza che il male non sarà mai interamente eliminato dal mondo perché non sarà mai eliminato del cuore dell’uomo, sia della accettazione  che la responsabilità, per coloro che sono chiamati a decidere, può comportare la scelta di azioni che individualmente non sarebbero tollerabili. Certamente tra queste due dimensioni, quella relativa alla necessità di raggiungere obiettivi concreti e quella delle convinzioni morali personali, non ci può essere una radicale separazione. Proprio la consapevolezza del legame tra di esse e la percezione che agire politicamente può significare, in precise circostanze, favorire la prima dimensione, impedisce al politico di pensare a se stesso e alla propria attività come se essa fosse semplicisticamente una trasposizione in politica della lotta tra bene e male. Impedisce quindi al politico di pensare a se stesso come  a un simbolo inattaccabile del bene in lotta contro il male nel mondo».

Un bel passo avanti davanti a certe rudimentali teologie politiche sull'Impero del bene del male…

Bisogna tener conto che in Niebuhr la consapevolezza della complessità e  della drammaticità dell’azione politica  scaturiva dalla sua concezione di libertà: egli riteneva che la libertà umana, come tendenza di autorealizzazione, di trascendimento e di aspirazione al significato , fosse all'origine delle più grandi conquiste umane; pensava che questa stessa libertà potesse errare e identificare in beni parziali il proprio compimento. La posizione nei confronti della politica aveva quindi origine nella complessità della natura umana, insieme immagine di Dio e peccato.

E oggi ? Quale consegna da questa presidenza che termina?  




«Oggi le posizioni niebuhriane non appaiono certo dominanti nella scena politica americana, che appare al contrario caratterizzata da una polarizzazione tra posizioni che il teologo avrebbe probabilmente definito con i termini fondamentalismo e progressismo. Nell'era della semplificazione mediatica, dell’imporsi della cultura del narcisismo e dello strapotere della finanza internazionale, il riferimento di Obama a Niebuhr, certamente limitato dalla necessità di tenere conto di precisi condizionamenti storici, appare comunque un atto di coraggio.   
 D’altra parte uno degli insegnamenti di Niebuhr meno richiamati, è l’idea che la storia, proprio perché creata dalla libertà degli uomini, esprima non solo gli errori della libertà, ma anche le tracce  della grandezza umana, segni che spetta a coloro che svolgono un ruolo politico ascoltare e seguire». 
Originale pubblicato su rivista Città Nuova 

domenica 6 novembre 2016

Non violenza e uso della forza



Confronto con Renato Sacco Pax Christi 

La scelta cosiddetta “pacifista” o “non violenta” è incompresa perché facilmente banalizzabile. Ad esempio le critiche sulla politica degli armamenti presuppongono la prospettiva di un necessario disarmo anche unilaterale?  Oppure possono accettare una politica di difesa in linea con la costituzione non determinata dagli interessi delle lobby industriali? 


Siamo in un tempo in cui si tende molto a semplificare, e poco ad approfondire. Si usano espressioni “pacifismo di vecchio stampo”  come ha fatto recentemente l’ex presidente Napolitano. I tempi dell’Isis vengono usati per giustificare l’uso delle armi; oggi conta il realismo, si dice, ma la realtà è molto più complessa. Esiste un rischio di sminuire tutto non affrontando la realtà nella sua interezza perché l’esistenza del Daesh viene agitata per giustificare la guerra da parte di certi governi che poi permettono – e promuovono - la vendita delle armi ai gruppi terroristici. E’ un dato ufficiale che l’Italia venda armi all’Arabia Saudita. Così come è ufficiale che l’Arabia Saudita sostenga l’Is. Parlare di disarmo non è un vuoto idealismo  ma l’unico realismo possibile davanti a coloro che coprono interessi nascosti. La storia recente ce lo spiega con abbondanza di particolari prendendo ad esempio l’inchiesta sulla strage dell’11 settembre a New York che non ha sfiorato la evidente  presenza dei sauditi e il loro coinvolgimento, lasciandoli così indenni da ogni ritorsione. Per tornare al realismo, invito a ricordare l’urgenza invocata da papa Benedetto XVI, commentando la prima lettura (Isaia 9,1-6) nella messa della notte di Natale del 2010:“Signore, realizza totalmente la tua promessa. Spezza i bastoni degli aguzzini. Brucia i calzari rimbombanti. Fa che finisca il tempo dei mantelli intrisi di sangue. Realizza la promessa: La pace non avrà fine».

Thomas Merton e la “guerra giusta” di Mario Zaninelli





Thomas Merton, il 21 novembre 1965, scrivendo al giornalista James Morrisey del Louisville Courier Journal, così si esprimeva: “Se il pacifista è colui che crede che tutte le guerre siano sempre sbagliate e sono sempre state sbagliate, allora io non sono un pacifista. Ciò nonostante credo che la guerra sia una tragedia evitabile, e credo che il problema del risolvere i conflitti internazionali senza una violenza massiccia stia per diventare il problema numero uno dei nostri tempi”.

Il 29 novembre 1961, quattro anni prima, scrivendo al suo amico Jim Forest, noto esponente del pacifismo, diceva: “Tecnicamente, non sono, in teoria, un pacifista puro, anche se oggi, in pratica, non vedo come si possa essere qualcosa di diverso nei confronti di alcune guerre anche se sono limitate (in qualche modo ‘giuste’) e che presentano un qualche pericolo per poter diventare una guerra nucleare in ampia scala”.

Questi passi, ci mostrano, l’approccio di Merton al tradizionale insegnamento etico cattolico verso la guerra, la cosiddetta teoria della guerra giusta, di cui Merton la accetta fondamentalmente come legittima ma crede che debba condurre logicamente ad un rigetto praticamente di tutte le guerre nell’era moderna. Sappiamo anche che nella sua autobiografia, Merton, basò la propria decisione di cercare lo status di obiettore cosciente e non combattivo per la Seconda Guerra Mondiale sull’applicazione del principio della guerra giusta. 

In sostanza, è favorevole, ad accettare che la guerra si attenga al criterio della giusta causa (ad es: è difesa e non aggressione), e se dichiarata questa venga fatta dall’autorità competente; è in qualche modo meno se questa guerra sia come un risultato all’ultima spiaggia ma è disposto a dare al governo anche il beneficio del dubbio. Così, egli accetta la legittimità della guerra secondo cui viene chiamata tradizionalmente il diritto alla guerra, cioè di entrare in guerra. Ma dove, Merton ha problema, un serio problema è con ciò che viene definito jus in bello, invece di jus ad bellum, cioè limitare mezzi e metodi durante la guerra [è quello che è il Diritto Internazionale Umanitario. Il DIU si applica indipendentemente dalla legittimità della guerra! mio inciso].

Domande per un confronto aperto



Nell’attuale drammatico tornante della storia, usando un’espressione tipica di Giorgio La Pira, proponiamo perciò di offrire uno spazio di dialogo ragionato a partire da alcune domande.

Il nostro paradigma culturale ed esistenziale non è segnato profondamente dalla necessità della guerra? 


  La nostra resistenza al male non    giustifica l’uso delle armi e quindi la guerra come avviene oggi, ad esempio, con i curdi verso il Daesh e ieri la resistenza al nazifascismo e ogni oppressione? Non esercita un certo fascino il suono del concerto di musica classica nella città di Palmira riconquistata dai russi anche se, come dicono alcune fonti, l’aviazione di Putin ha usato le bombe a grappolo?


Il riferimento a Lincoln, nel discorso di Francesco al Congresso Usa, non riguarda forse l’esistenza di motivazioni umanitarie (la liberazione dalla schiavitù) tali da condurre ad una violentissima guerra civile? 
Non possiamo in qualche modo motivare l’uso della forza senza arrivare a giustificare l’orrore in una spirale senza fine? 
  È davvero senza soluzione il dilemma tra la giustificazione della guerra che spalanca inevitabilmente verso l’abisso e la scelta della non violenza assoluta che ci consegna al carnefice come i primi cristiani davanti alle belve fino ad accettare, senza un’azione di difesa, lo strazio delle vittime innocenti?





Seguendo Francesco


Papa Francesco invita continuamente a riconoscere le cause reali della guerra che sono legate al potere dei soldi. Invita a non cedere alla tentazione di giustificare l’uso della violenza armata con motivazioni religiose ma denuncia tale pretesa come blasfema pur invitando a riconoscere lo stato di guerra planetario alimentato dalla diseguaglianza e dall’economia che uccide la Terra. Come ogni grande catastrofe avvenuta nella storia, la scintilla destinata ad accendere l’olocausto, scocca in contesti apparentemente banali. 


Ma prima ancora di affrontare la complessità pervasiva del complesso militare industriale e finanziario, bisogna approfondire in maniera esigente l’attualità della lezione di Thomas Merton che si pone esplicitamente in alternativa al cosiddetto realismo cristiano di ascendenza agostiniana promosso da Reinold Niebuhr.

Lontano da ogni rozza teorizzazione mitologica dell’impero del male, il celebre teologo protestante riconosceva la necessità talvolta di dover condurre la guerra senza negarne tuttavia l’orrore e gli effetti paradossali (“agisco per realizzare il diritto e provoco ingiustizie”). 


Una visione che ha ispirato, per sua stessa ammissione, Barack Obama, come conferma il discorso pronunciato dal presidente Usa al momento di ricevere, per restare nel paradosso, il premio Nobel per la pace nel 2009.

Perchè partire da Thomas Merton



Nel discorso al Congresso statunitense del settembre 2015, papa Francesco ha indicato, assieme ad Abram Lincoln e Martin Luther King, altre due figure esemplari di quel Paese: Thomas Merton e Dorothy Day. Un uomo e una donna decisamente controcorrente, radicalmente oppositori della giustificazione della guerra che, invece, ha attraversato la storia millenaria del cristianesimo. La predicazione dell’obbedienza all’autorità legittima, pur se ingiusta, è, infatti, tuttora uno scandalo rimosso nella coscienza storica collettiva.

Un testo di Merton, “La pace nell’era postcristiana”, è stato censurato per decenni e pubblicato solo nel 2004. Con tale scritto, il grande scrittore, convertitosi da adulto  al cattolicesimo e diventato monaco trappista nel convento del Getsemani in Kentucky, definiva la guerra come opzione irrazionale e ateistica fatta propria dagli stessi cristiani che affidano la propria salvezza all’idolo della bomba e degli strumenti di morte che non possono rientrare nelle giustificazioni classiche di una guerra giusta perché preordinati a creare danni estesi sulla popolazione civile innocente, fino allo sterminio.  In questo senso la decisione di costruire e far esplodere gli ordigni nucleari sulle città del Giappone nel 1945 rappresenta il punto di non ritorno di un’era apocalittica dove la fine imminente è ormai realisticamente possibile. I conflitti consumati dopo Hiroshima e Nagasaki, anche se non sono giunti all’uso dell’arma finale, hanno mostrato una capacità di distruzione sperimentata già con il bombardamento al napalm di Tokio o quello al fosforo di Dresda, applicando la strategia (“Il dominio dell’aria”) teorizzata dall’ufficiale italiano Giulio Douhet, nel 1921, in contemporanea con Billy Mitchell e sir Hugh Trenchard.


Oggi, dopo l’illusione seguita al crollo del blocco sovietico, l’uso dell’arma atomica è ancor più fuori controllo perché accessibile a diversi Paesi, tutti possibili attori del “primo colpo”, anche se la vulnerabilità reale si sperimenta pure in Occidente con la tecnica asimmetrica del terrorismo, a partire dal disastro delle torri di New York nel 2001 fino ai più recenti crudeli attentati nonostante la presenza dell’esercito nel centro delle nostre città. In tale contesto colpisce la progressiva assuefazione alla guerra da parte delle giovani generazioni come un male inevitabile, l’accettazione del progressivo riarmo che distoglie risorse dalla cura dei beni comuni, come la scuola l’ambiente e la sanità, a favore di un complesso industriale che, per tenersi in piedi, deve vendere i prodotti anche alle nazioni in guerra finendo per attizzare il fuoco che teoricamente la politica del riarmo dovrebbe spegnere.

Resistenza armata e ripudio della guerra

Dall'Extra di Città Nuova sulla politica della nonviolenza attiva   una domanda al filosofo Roberto Mancini  Fiamme verdi....