Dall'Extra di Città Nuova sulla politica della nonviolenza attiva
una domanda al filosofo Roberto Mancini
Fiamme verdi. Partigiani cattolici nella guerra di Liberazione |
Ultimamente
abbiamo salutato Tina Anselmi, come figura esemplare della Repubblica, che ha
cominciato la sua attività politica con l’entrata in clandestinità nelle
formazioni partigiane. Sono anche i 100 anni di Teresio Olivelli, il
leggendario partigiano cattolico dei “ribelli per amore”. Esempi di cristiani
che hanno preso le armi per difendere i diritti calpestati da una dittatura
inumana. Come si può affermare il ripudio della guerra affermato sancito nella
Costituzione di una Repubblica nata dalla Resistenza prevalentemente armata?
La
via della nonviolenza apre a una forma di vita che implica la cura verso le
persone e gli esseri viventi, in ogni relazione. Siamo così di fronte a una
scelta di azione e a un atteggiamento profondo che generano uno stile di
esistenza. Tale precisazione è necessaria perché la stessa parola
“nonviolenza”, che ha una suono soltanto negativo, fa pensare a una specie di
ritiro dai conflitti e dai problemi, alla passività di chi è intento solo a
mantenere pura la propria coscienza.
In verità la nonviolenza è l’espressione
di una conversione radicale delle persone e anche delle comunità, lì dove si
stabilisce una distanza dalla tendenza alla violenza e invece si aderisce
all’Amore come origine e verità della vita.
Chiarito
questo punto fondamentale, si comprende che chi fa una scelta simile non può
causare o inaugurare alcuna guerra.
Teresio Olivelli partigiano dei Ribelli per amore |
Tutti i maestri della
nonviolenza, da Gandhi a Bonhoeffer, sostengono che quando si arriva a questo
estremo, c’è anche il dovere di fare una scelta tragica, ma in ogni caso questo
non va elevato a principio di moralizzazione della violenza “giusta”, che poi
sarebbe puntualmente invocato nelle situazioni future e da chiunque.
Benigno Zaccagnini partigiano cattolico |
L’omicidio
è sempre omicidio. Quindi la Resistenza non rende morale l’uso della violenza.
La moralità della Resistenza sta solo nell’aver posto un limite allo strapotere
del regime della violenza, assumendo la contraddizione per poter avviare la
risalita oltre una condizione totalmente compromessa dal male. Chi si trova su
un confine così tragico deve operare per riaprire tutte le possibilità di
convivenza pacifica e della democrazia che ripudia la guerra.
Ed è precisamente
quello che fecero quanti diedero vita alla Resistenza non con spirito di
vendetta o commettendo rappresaglie. Queste persone si battevano per una
società completamente diversa: basta leggere le lettere dei condannati a morte
della Resistenza italiana ed europea per averne la testimonianza.
Si
noti la differenza di prospettiva: chi si riferisce alla Resistenza per dire
che esiste la violenza giusta spreca e fraintende il senso di quel gesto
tragico, mentre lo coglie chi lo riconosce come il monito a lavorare per
prevenire le situazioni di mancanza di alternativa, costruendo sistemi
educativi, sociali, economici e politici che amplino sempre di più la libertà
dalla violenza.
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